martedì 24 marzo 2015

Per una riforma dello stato giuridico della docenza universitaria: Il ruolo del docente unico a valutazione periodica


Per una riforma dello stato giuridico della docenza universitaria:
Il ruolo del docente unico a valutazione periodica
Calogero Massimo CAMMALLERI (Università di Palermo), Andrea ABATE (Università di Salerno), Emma BUONDONNO (Università Federico II), Adriana BRANCACCIO (II Università di Napoli), Petronia CARILLO (II Università di Napoli), Armando CARRAVETTA (Università Federico II), Marco COSENTINO (Università dell'Insubria), Brunello MANTELLI (Università della Calabria), Maurizio MATTEUZZI (Università di Bologna), Valeria MILITELLO (Università di Palermo), Enrico NAPOLI (Università di Palermo), Ugo OLIVIERI (Università Federico II), Giorgio PASTORE (Università di Trieste), Delia PICONE (Università Federico II), Sergio BRASINI (Università di Bologna), Giorgio TASSINARI (Università di Bologna)[1]


Perché il ruolo unico
C'è chi dice che il ruolo unico della docenza universitaria c'è già: professori ordinari e associati sono solo due fasce di un unico ruolo. Alla lettera della normativa vigente è vero[2]. Ma è difficile spiegare a colleghi stranieri come mai un unico ruolo preveda così tante differenze di diritti a parità di doveri. Ultimamente, di là di motivazioni di principio, sta aumentando l'interesse da più parti, in ambito accademico, ma anche politico[3],[4], per discutere e studiare possibili implementazioni operative di un vero ruolo unico della docenza universitaria, e questo semplicemente per ragioni di efficienza del sistema e anche di adeguamento alle condizioni di emergenza in cui si trova l'Università.
Prima di tutto qualche numero riguardante la composizione del corpo accademico (professori e ricercatori, di qui in avanti semplicemente docenti). Essa si è assottigliata sempre più negli ultimi anni con un sensibile invecchiamento del corpo docente.
Secondo l'ufficio statistica del MIUR[5] – dati riferibili ai 66 atenei statali e ai 25 non statali – nel 2008 il corpo accademico era formato dal 62.768 docenti.
Di questi fino al 2013 ne sono stati perduti 9.322, pari al circa il 15% del totale, e ci siamo ridotti a 53.446.
Quello che è più allarmante è i pensionamenti del 2014 e del 2015 saranno di 781 che, con  proiezione al 2018, ascendono a 1.437; cioè perdiamo 10.000 docenti in un decennio, mille l'anno, 500 al semestre accademico.
Ancora più allarmante si rivelano i dati sulla composizione del corpo docente.
Al 2013 esso è composto da 13.890 ordinari (di cui solo 2935 donne). Di questi solo 23, di numero– meno del due per mille – sono infra quarantenni, e nessuna donna. Non va meglio se consideriamo la coorte fino ai 45enni, solo 419, meno del 3 per cento stavolta e solo 80 donne, né se la estendiamo fino ai cinquantenni: solo 1.835 (poco più dl 10%) di cui solo 338 donne.
Facendo una proiezione al 2018 sulla base dei dati del 2013, fino a quell'anno andranno in pensione 2.752 ordinari e non ci sarà nessun ordinario infra-quarantenne. Il corpo docente ultra sessantenne sarà di ben 18.800 docenti su 53.000, quello infra-cinquantenne sarà solo di 4.145 di cui solo 419 ordinari e solo 781 associati.

Non è perciò un'esagerazione affermare che siamo in presenza di una concreta emergenza.

Essa, tuttavia, non risiede nei numeri in sé considerati, quelli semmai possono indurre ad agire con urgenza: sarebbe a dire con provvedimenti contingenti o peggio – tanto per citare il libro Maurizio Matteuzzi a proposito dell'innominabile ministra – con riforme “epocali”, ammannite sotto varie egìde, dentro qualche tunnel di neutrini o dentro “i carceri” per fannulloni[6]

L'emergenza  crediamo vada invece aggredita alla radice,  eliminando le determinanti causali, che, se non rimosse, inevitabilmente  ridetermineranno nel futuro prossimo una nuova emergenza. E la causa strutturale di tale emergenza non risiede, a nostro avviso, né nel blocco delle assunzioni, né nei vari meccanismi concorsuali o selettivi o idoneativi o abilitativi, né nel centralismo o nel localismo del reclutamento e degli avanzamenti, tutti del resto già sperimentati nel corso dei lustri passati.

La causa è appunto strutturale, cioè è quella di un sistema che non ha saputo adeguare il proprio statuto ai tempi: e ciò in secula seculoroum. Il “sistema università” è ancora una riproduzione – abbastanza fedele – del sistema feudale che, com'è a tutti noto, è un sistema che più tecnicamente invera la “rete vassalla”.  Un sistema rigidamente gerarchico basato sulla fedeltà personale del vassus al suo signore, cioè colui che lo aveva “creato”. Questi gli concedeva la giurisdizione sul feudo attribuitogli e i conseguenti proventi derivanti dall'attività del restante 98% della popolazione: contadini liberi e dai servi della gleba, cioè ricercatori e precari. Il sistema feudale codifica che l'inferiore, a ogni livello, assuma obblighi e impegni solamente col suo immediato superiore, a cui deve il beneficio, come il … “barone creatore”. In assenza di questa semplice regola d'ordine e di ordinamento il sistema non si reggerebbe. E infatti sappiamo che nella società moderna è scomparso. Tranne che all'università tuttavia, dove ancor oggi ancora impera, vieppiù dopo gli interventi degli ultimi ministri. Gli interventi di “riforma”, sempre pubblicizzati sotto la réclame della lotta al baronato universitario, hanno invece incredibilmente rafforzato il “rapporto vassallatico-beneficiario”. Ne sono testimonianza diretta l'esclusione dei ricercatori e degli associati dalle commissioni di concorso[7], l'assoggettamento dell'Università all'ANVUR[8] (con toni e modi da un “campiere o soprastante”) e tramite essa al potere politico di turno, l'esautoramento del Senato Accademico nel governo degli atenei e così via. E non è stata un'eterogenesi dei fini. È stata un’apocalisse.

Che l'università sia organizzata in un sistema feudale o, con ossimoro beffardo, in una democrazia feudale, è testimoniato dall’organizzazione della componente docente del sistema: i suoi costituenti, cioè precari, ricercatori, professori associati, professori ordinari, pur svolgendo taluni di fatto (precari e ricercatori) tal altri di diritto (professori associati e professori ordinari), le stesse medesime indistinguibili funzioni basiche, cioè ricerca e insegnamento della loro ricerca, godono di un differente sostanziale regime giuridico, e ciò perfino laddove la legge sembri proclamarne l'unità: cioè nel caso dei professori di prima e di seconda fascia.
La differenziazione di stato giuridico tra soggetti che svolgono le medesime funzioni:
– da un lato è una distinzione artificiale: se nessuno avesse la casacca diversa nessuno se ne potrebbe accorgere osservando l'uomo al lavoro;
– da un altro è una distinzione artificiosa: serve per mantenere in vita quel corpo artificiale che altrimenti vita non avrebbe.
La differenziazione di stato giuridico si concreta empiricamente da un lato nel “monopolio della riproduzione” e da un altro nel “monopolio di governo”; monopoli, entrambi affidati a un manipolo di soli professori ordinari, i signori; gli unici soggetti che possono governare e “creare” i ricercatori e i professori della loro “rete vassalla”. Il sistema feudale è qui dunque perfettamente riprodotto: solo l'ordinario cioè il “superiore” beneficiario (della fedeltà) può legittimare l’“inferiore” (suo vassallo) e tale rapporto feudale dura a vita, (certo qualche anarchico ogni tanto scappa, ma basta isolarlo e non dargli troppo peso, ché tanto da sé stesso non si potrà riprodurre!) e si badi esso è sì forte che riproduce la relazione vassalla anche all'interno della cerchia dei professori ordinari. Sebbene con qualche attenuazione, la rete vassalla, attraverso il meccanismo non scritto del professore ordinario anziano e potente (quello che la vulgata non a caso appella barone) è il beneficiario della fedeltà di molti professori ordinari giovani. È così che il “barone” esercita la sua signoria nelle commissioni di concorso e nel governo dell'università. Tramite la sua rete, la sua la “politica” si riproduce e la somma di esse costituisce alla fine la politica universitaria.

Proviamo solo a riflettere su quanto un sistema di governo che si basa sul “rapporto vassallatico-beneficiario” sia ancora utile per l'università (ammesso che mai lo sia stato) oppure di quanto possa esserle oggi particolarmente dannoso, poiché oramai, com’è testimoniato dalle statistiche accennate, esso è perfino incapace di rigenerarsi. E questa incapacità del 2% della popolazione rischia di trascinare con sé tutto il restante 98%.

Dal punto di vista dell'efficienza del sistema, l'apartheid tra le fasce della docenza imbriglia le energie nuove e quelle più fresche e quelle più audaci, perché la ricerca di chi dipende, per la propria carriera, dal rispetto del patto non scritto – e per tale ragione maggiormente insidioso –  di “omaggio vassallatico-beneficiario” non può essere libera e indipendente. Un Paese senza libertà di ricerca e d’insegnamento della ricerca libera è anche un paese senza possibilità d’innovazione. Un paese senza innovazione è un Paese che muore. Ci si passi il brutto termine: occorre “defedaulizzare” l'Università e occorre farlo in fretta, molto in fretta; farlo prima di ogni altra riforma si voglia fare, anzi farlo come premessa necessaria a ogni rinnovamento.
E l'unico “vero” modo per farlo, come suggerisce il titolo più che appropriato, icastico, del convegno di Torino è “rivoluzionare” il sistema o – in altri e più chiari termini – passare dalla “rete vassalla” al “ruolo unico”, perché se no, mentre a Roma si discute dell'ennesima riforma sistemica l'Università, L'Università quella statale, libera, pubblica, sarà espugnata da quella privata, mercantile e – solo younghianamente –  “meritocratica”!

E il merito? Non viene calpestato ipso-facto da questa idea del ruolo unico? Ma che cultura del merito c'è in un sistema, come quello attuale, in cui il passaggio di fascia garantisce a vita una rendita di posizione, appena solo mitigata dal meccanismo delle mediane per le commissioni di concorso?  Paradossalmente, per chi considera la battaglia per il ruolo unico come l'anticamera della negazione del merito, agitando vieti spauracchi di appiattimento verso il basso, un ruolo unico in cui la progressione stipendiale e l'accesso alle cariche apicali siano costantemente vincolate alla valutazione positiva, non una tantum ma costante, diventa un vero e verificabile traguardo di implementazione della vera meritocrazia nei fatti e non negli slogan.



[1] I firmatari sono tutti componenti del Co.N.P.Ass. - Coordinamento Nazionale dei Professori Associati delle Università Italiane
[2] D.P.R. 11 luglio 1980, n. 38, art. 1 – “Il ruolo dei professori universitari comprende le seguenti fasce: a) professori straordinari e ordinari; b) professori associati.”
[3] “Il Ruolo Unico: una rivoluzione necessaria? Discussione nazionale nella prospettiva di una riforma dello stato giuridico della docenza universitaria”. Convegno, organizzato dalla Rete 29Aprile, 2 marzo 2015, Politecnico di Torino.
[4]  " Ruolo Unico della docenza: una via di fuga o una soluzione? Università di Università di Bari "Aldo Moro", 14 ottobre 2013.
[6] Matteuzzi M (2014) I neutrini, i carceri e le egìde. Cronaca di una riforma epocale. Aracne Ed. ISBN 978-88-548-6870-0
[7] Legge 30 dicembre 2010, n. 240, art. 16 comma 3 lettera f.
[8]  Legge 30 dicembre 2010, n. 240, art. 1 comma 4.